SERGIO LEPRI: "Chi più sa più è libero"

“Pronto? Buongiorno, vorrei parlare con Sergio”. “Sergio non c’è, lo può trovare verso le 12:30. Adesso sta giocando a tennis”. Sarebbe una risposta ordinaria se non fosse che lo sportivo è il giornalista Sergio Lepri, per 30 anni direttore dell’Ansa e che la scorsa settimana ha compiuto 90 anni… E se il fisico è ancora incredibilmente agile e gli permette di dimenarsi sulla terra battuta, la testa lo è ancora di più quando riflette sulla società odierna e sul giornalismo, il cui ruolo, afferma, deve essere ora e sempre quello di “contribuire alla crescita civile della società”.

Parlando di te qualche tempo fa Vittorio Zucconi ha scritto: “Sergio Lepri ha combattuto tutto il tempo contro la gramigna della frase fatta che impera nel nostro linguaggio, conciliato dalla pigrizia mentale del giornalista che preferisce prendere dallo scaffale un’espressione già pronta e logora, anziché riflettere”. Partiamo proprio da questa riflessione: com’è oggi e come dovrebbe essere il linguaggio giornalistico?
Il linguaggio? Dovrebbe essere chiaro. E negli ultimi tempi spesso non lo è più. Il primo dovere di un giornalista è quello di farsi capire, in relazione al pubblico a cui si rivolge. Soprattutto in tv, dove il pubblico va dai plurilaureati a coloro che hanno soltanto la licenza elementare (che nel nostro Paese, ricordiamo, sono la maggioranza). E la prima virtù di chi fa informazione dovrebbe essere l’umiltà. Essere umili di fronte al lettore che attende dal giornalista di accrescere il proprio patrimonio di conoscenze, di avere gli elementi per giudicare meglio i problemi del momento, per vivere meglio.

I giornalisti oggi peccano di scarsa umiltà?
Frequentemente. Si fa spesso confusione tra giornalismo e letteratura. Il giornalismo attiene non alla letteratura bensì alla storiografia. “E’ una storiografia dell’istante”, ha affermato Umberto Eco, io più semplicemente mi limito a dire che è la storiografia del quotidiano, del contingente, e serve per capire meglio le cose. Ma molti giornalisti hanno il vezzo di volersi distinguere usando un linguaggio troppo ricercato, dotto, aulico o utilizzando parole straniere anche quando non sono necessarie. Nessun nazionalismo per carità. Viviamo in un mondo globale e abbiamo bisogno di parole straniere e alcune di esse vanno utilizzate perché manca il corrispettivo in italiano. Ma nella maggior parte dei casi vengono usate solo per il vezzo di far pensare che conosciamo altre lingue. E finiamo spesso per pronunciarle male…

Nella pagina principale del tuo sito internet, scrivi che il ruolo del giornalista deve essere quello di “contribuire alla crescita civile della società”
Certo, questo è il bello della nostra professione. Al di là delle sue finalità istituzionali (far conoscere ciò che accade e aumentare la conoscenza di cittadine e cittadini) il giornalista ha una responsabilità di carattere sociale: chi più sa più è libero! Ed ecco allora che se il lettore, o il telespettatore, riesce ad accrescere le proprie conoscenze e ad incrementare gli elementi per esercitare meglio le proprie responsabilità vorrà dire che il giornalista avrà svolto un ruolo sociale.

Dici che “chi più sa più è libero”. Io aggiungo che più uno è libero e più ha possibilità di contribuire ad accrescere il sapere. Ma in Italia la libertà, specie nell’informazione, sembra una merce sempre più rara…
Un tempo, quando iniziai questa professione, diciamo qualche annetto fa…si utilizzava l’espressione “quotidiano di informazione”. Ora non esiste più. Si parla più spesso di quotidiani politici. Ovviamente ciò non mi spaventa, poiché tutto è politico. Il problema è quando l’informazione diventa solo lo strumento o il riflesso di poteri,  economici o politici. Perché il giornalismo è un potere se esprime valori comuni condivisi in una società evoluta e moderna; se è un servizio che si esercita a favore dei cittadini. Invece, da qualche tempo, è diventato per molti qualcosa di diverso: un mezzo di pressione politica o peggio ancora di suggestione: non si informa il lettore ma si cerca di persuaderlo per profitti di carattere politico o commerciale. Il lettore viene visto non come fine dell’informazione, ma come mezzo per arrivare ad altri scopi.

Vale anche per il telespettatore?
Ancora di più. La televisione, è stata un elemento piuttosto coinvolgente (vorrei dire devastante) che ha modificato modi di pensare e comportamenti. E così siamo diventati una società dello spettacolo con la logica imperante dell’audience e gli spettatori che vengono venduti dalle imprese televisive pubbliche o private ai pubblicitari. Un’informazione che non si rivolge alla “ragione” dell’ascoltatore ma ai suoi istinti: cerca di commuovere (pensiamo all’ampiezza della cronaca nera o alla drammatizzazione dei fatti). Si cerca non tanto di spiegare, raccontare o interpretare quanto di intrattenere, commuovere. Quante lacrime si vedono nei tg, quante interviste perfettamente inutili dal punto di vista informativo…

Poi ci sono le trasmissioni che vengono spostate a tarda notte, altre rinviate, altre ancora messe sotto processo
Tutto ciò mi indigna profondamente. M’indigna la semplice decisione di rimandare una trasmissione culturale in una fascia oraria notturna perché magari ha solo un milione di spettatori…. Solo un milione… E questo milione non ha il diritto di vedere un programma che risponde alle proprie esigenze informative, non di intrattenimento ma di carattere culturale?

Anche con questo spirito in molti parteciperanno alla manifestazione del 3 ottobre prossimo
E’ importante che lo spirito di questo appuntamento sia chiaro: perché si fa? Perché si scende in piazza? Ce lo siamo domandati? Per me si deve scendere in piazza per contestare l’indifferenza e l’accettazione passiva da parte della società italiana di fronte a quello che sta accadendo nell’informazione e nella giustizia. E per richiamare tutti alla difesa e al rispetto di quei bellissimi principi contenuti nell’articolo21 della Costituzione. Non può essere una manifestazione dei (per i) giornalisti ma deve porsi l’obiettivo di coinvolgere la società intera dicendo “cari amici indignatevi anche voi per quello che succede…” Questo dovrebbe essere lo spirito di chi scende in piazza.

Temi che possa trasformarsi in un’altra cosa?
Non deve essere una forma di spettacolo ma un momento collettivo di indignazione. Certo, una piazza non è un’aula di università. Devi cercare di salire sul palco ed evitare che la gente si addormenti o se ne vada. Ma senza perdere la sobrietà, l’umiltà e la chiarezza nell’esposizione.

Tu ci sarai?
Certo che ci sarò, ci mancherebbe altro…

Hai appena compiuto 90 anni. Cosa consiglieresti a un giovane che ha deciso di intraprendere il tuo stesso mestiere?
Gli direi che se vuole fare il giornalista per essere qualcuno, o per essere un protagonista della realtà è meglio che scelga un altro mestiere. Se invece vuole farlo perché vede nel giornalismo un servizio a favore dei cittadini, un modo per accrescere il livello di conoscenza e rispondere ai bisogni informativi della gente, allora benvenuto nel gruppo!

Stop alla registrazione. Intervista conclusa. Ma prima di salutarci una curiosità: “A proposito – chiedo al neo 90enne – com’è andata la partita di tennis oggi? “Molto bene – risponde Sergio – peccato che il mio maestro è un po’ vecchietto. Ha 74 anni. E ogni tanto si ferma…”   

(Stefano Corradino  – www.articolo21.org)