CARLO LUCARELLI: "Una notizia non è una notizia se non fa notizia?"

Paolo Borsellino, Nicola Calipari. E poi Angelo Vassallo e Carmelo Iannì. Uomini dello Stato. Ed eroi normali. Uccisi solo perché facevano il loro dovere. Così come Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, i due giornalisti del Tg3 assassinati 19 anni fa che sembra avessero scoperto traffici internazionali di rifiuti tossici e di armi. Reporters con la schiena dritta che si sono avventurati in una zona di guerra alla ricerca della verità. Ma la guerra si combatte anche nel nostro Paese, quella contro la criminalità e la corruzione. Lo sanno bene Lirio Abbate, Arnaldo Capezzuto, Giovanni Tizian e i tanti cronisti sotto scorta del Sud e del Nord d’Italia il cui impegno civile e spirito di indipendenza li induce a proseguire le loro inchieste, anche in seguito a minacce e intimidazioni.
Sono questi alcuni protagonisti delle puntate di “Lucarelli racconta” in onda ogni martedì in seconda su Rai3 fino al 3 settembre. “Sono delle repliche – spiega Lucarelli – ma molto rielaborate e rese più snelle, tanto da renderle quasi nuove”.

Sono argomenti che avete già trattato ma conservano tutta la loro attualità: merito del vostro lavoro o demerito di un Paese poco sensibile alla ricerca della verità tanto da lasciare alcuni grandi misteri insoluti?
Un po’ di merito nostro c’è. E d’altronde, quando metti in fila i fatti accertati, le notizie che dai rimangono per forza attuali. Noi siamo un programma più di storie che di inchieste e finiamo per raccontare cose abbastanza solide. Il demerito è legato al fatto che, purtroppo, in questo Paese, non si riesce a raccontare una storia dalla a alla z. Se pensiamo che la strage di Portella della Ginestra è una vicenda ancora aperta ad oltre 65 anni di distanza…

Nessun interesse a dare una risposta a questi misteri? Dal dibattito di questi mesi sulla trattativa Stato-mafia –un tema di cui vi siete occupati nella prima puntata  – l’auspicio era di aprire qualche squarcio su quella vicenda.
Era una speranza,quella di fare finalmente i conti con il passato. Anche per restituire un po’ di fiducia nella politica e nelle istituzioni. La sfiducia d’altronde non arriva da un giorno all’altro ma si alimenta negli anni anche per alcune mancate risposte. E questa vicenda è un piccolo cancro della memoria. Quando poi la politica e le istituzioni, che avrebbero l’occasione di dire “diamo un taglio netto e chiaro senza guardare in faccia a nessuno”, non lo fanno, allora altro che sfiducia…

C’è una strage, un mistero italiano, dai contorni più oscuri?
Quello che mi sta maggiormente  a cuore probabilmente è la strage di Bologna: non solo perché sono bolognese ma anche perché è uno dei misteri centrali non risolti della nostra storia. Per non risolto intendo non tanto chi ha messo la bomba – si può essere più o meno d’accordo con la verità giudiziaria – ma chi ha ordinato i depistaggi, che è l’aspetto più importante.

Lei conosce molto bene i familiari delle vittime delle stragi. Quanto è difficile per loro convivere con il mancato risarcimento di verità e giustizia, oltre, in alcuni casi, a quello economico?
E’ difficilissimo per loro convivere con questa realtà. Tra l’altro, molto spesso i familiari delle vittime sono loro stesse le vittime: normalmente quando si pensa alle vittime di una strage si fa riferimento solo alle persone decedute ma poi ci sono anche i feriti. E ne conosco tanti a Bologna colpiti da pezzi di schegge provocati dalla bomba del 20 agosto 1980.

E poi ci sono i familiari che si portano dietro conseguenze emotive fortissime. Si può chiudere una porta con il passato?
In alcuni casi ci si può provare. Se un figlio è morto sotto una macchina per un incidente, conosci la dinamica, sai chi ne ha provocato la morte, in un certo modo provi a fartene una ragione e a chiudere quella porta. Ti sforzi di dire “la vita continua”. Ma se tutto rimane avvolto dal mistero, se ti chiedi chi è stato a mettere quella bomba, perché l’ha fatto e nessuno ti da una risposta definitiva, e dopo trent’anni scopri che ci sono stati continui depistaggi e occultamenti delle prove da parte di coloro che cercavano di rassicurarti… beh allora fare i conti serenamente con il proprio passato è molto difficile.

I familiari tuttavia non si sono mai arresi e hanno costituito numerose associazioni per chiedere a gran voce la verità.
E’ stato importantissimo. I maggiori depositari della storia e della memoria di ciò che è successo sono proprio le associazioni  dei familiari delle vittime. Brescia, Bologna, Ustica… Se non ci fossero stati loro conosceremmo molto meno di ciò che ci è dato sapere.

Due puntate del programma riguardano “gli uomini dello Stato” e i cosiddetti “eroi normali”. Dei primi si parla solo in occasione delle specifiche ricorrenze, dei secondi praticamente mai. Quale responsabilità ha l’informazione di questa (quasi) sistematica omissione?
Di responsabilità ne abbiamo molte. In verità la colpa non è proprio tutta nostra: viviamo all’interno di un sistema, quello dell’informazione e della memoria  che rende difficile agire diversamente. O lo scardini completamente o resta intasato. E ti ritrovi a dover raccontare alcune storie nel giorno dell’anniversario perché solo in quel momento c’è lo spazio…  Siamo prigionieri di un concetto secondo  cui “una notizia non è una notizia se non fa notizia…” E così la mafia, con i suoi intrecci perversi, che dovrebbe essere sempre una notizia lo diventa solo a cospetto di fatti eclatanti o delle classiche ricorrenze. E se ne riparla solo in quel momento. Ma uno alle ricorrenze dovrebbe arrivarci che la storia già la conosce.

Raccontare la storia di alcune figure, non solo per commemorarle è importante anche per dare degli esempi positivi alle nuove generazioni
Abbiamo esempi di donne e di uomini che hanno fatto cose meravigliose e che dovremmo raccontare ai più giovani affinché sentano l’orgoglio di assomigliare loro. Non solo personaggi come Falcone e Borsellino ma quelle tante piccole persone che hanno fatto il loro dovere. La criminalità organizzata non è solo quello che ti spara in testa ma anche colui che non fa il suo dovere, e che mette un timbro dove non dovrebbe e in virtù di quel timbro arriva al porto un carico di droga. Se tu quel timbro non lo metti la macchina criminale si blocca. E ce ne sono tanti che hanno scelto di non timbrare!

La puntata del 27 agosto prossimo è dedicata a Giovanni Tizian, Lirio Abbate e Arnaldo Capezzuto, giornalisti sotto scorta per il coraggio delle loro inchieste. Se l’Italia è fanalino di coda nelle graduatorie internazionali per la libertà di stampa è anche a causa delle condizioni così rischiose e difficili in cui si trovano a lavorare i cronisti?
La posizione di bassa classifica è condizionata da molti elementi: l’ingerenza politica sull’informazione, i conflitti di interesse ma anche dalla situazione anomala e pericolosa in cui si trovano a vivere molti colleghi, giornalisti nel mirino che rischiano la propria pelle. E se poi quello a cui bruciano un motorino per ciò che ha scritto è un precario che prende pochi euro a pezzo, dal punto di vista professionale è come se gli avessi sparato! Si è come in guerra. Colpiti da interessi forti. Ti sparano, ti bruciano la macchina, ti querelano, telefonano al direttore o al proprietario del giornale o di una tv per intimidirti…

Il 3 settembre è l’ultima puntata. Poi cosa succederà? C’è stato un dibattito animato sul futuro del programma. Gli stessi familiari delle vittime si sono allarmati quando si è ventilata l’ipotesi che la sua trasmissione potesse non riprendere.
La solidarietà delle associazioni dei familiari è stata un fatto importante. Perché loro sono, insieme a tanti altri, spettatori e fruitori di queste inchieste. Per il futuro siamo in attesa. Abbiamo un progetto nuovo, con nuovi temi, e un taglio più veloce e dinamico. Se ci saranno le risorse partiremo. Siamo fiduciosi.

 

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