Fuochi d’artificio in bianco e nero

Per ora suona soltanto il jazz, non v’è melodia, solo note, una miriade di piccole scosse. Non hanno sosta, un ordine inflessibile le fa nascere e le distrugge, senza mai lasciar loro l’agio di riprendersi, di esistere per se stesse. Corrono, s’inseguono, passando mi colpiscono con un urto secco, e s’annullano. Mi piacerebbe trattenerle, ma so che se arrivassi ad afferrarne una, tra le dita non mi resterebbe che un suono volgare e languido. Devo accettare la loro morte; devo perfino volerla: conosco poche impressioni più aspre e più forti”. Così lo scrittore Jean Paul Sartre, nobel per la letteratura descriveva l’effetto che provocava su di sé l’ascolto della musica jazz.

Il jazz, questa musica strana che nasce “bastarda”, senza timori di incontrare l’altro, di sporcarsi, di perdere chissà quale identità; predisposta, fin dall’inizio a ogni tipo di esperienze, di viaggio esistenziale e culturale, anche con forte valenze politico-sociali. Un genere musicale al quale è ancora difficile attribuire una “etimologia” precisa ma di cui sono inconfutabili le origini “sociali”. Nasce e prende forma con l’affermarsi nella società americana della minoranza nera; discende dagli schiavi neri d’America che si erano inventati la loro musica; memorie di ricordi africani trapiantate sulle sonorità popolari dei bianchi e contaminate dai canti religiosi cristiani.
Un genere difficile e non “commerciale”. La cifra che può guadagnare con un solo disco una star del pop, il jazzista più prestigioso potrebbe non  raggiungerla in tutta la sua carriera… Negli anni ’30, un chitarrista jazz di nome Emmet Ray era ossessionato dal successo che non riuscì a raggiungere completamente. Lo ricordava Woody Allen, cinque anni fa nel suo film biografico “Accordi e disaccordi”, sulla storia di questo leggendario musicista. Quello di Ray era un pretesto per il regista per rappresentare una condizione, quella di molti musicisti jazz di straordinario talento che non riescono ad imporsi come vorrebbero.  

La lunga premessa per spiegare che quello con il jazz è un rapporto tutt’altro che facile. E anche promuovere manifestazioni focalizzate su questo genere musicale può presentare più di un problema. Eppure ad Orvieto con il jazz invernale siamo a quota dodici. Pur con le ingenti difficoltà economiche di una manifestazione importante che il Comune finanzia quasi per intero, anche questa edizione che inizia il 29 dicembre e si conclude il 2 gennaio 2005, offrirà un programma di tutto rispetto, con autorevoli artisti italiani ed internazionali.

Un’edizione black & white: ad accompagnare i fuochi d’artificio per i festeggiamenti del nuovo anno ci penseranno i chiaroscuri della rassegna fotografica dedicata al jazz, i musicisti bianchi e neri provenienti da ogni parte del mondo, i tasti neri e bianchi del pianoforte.

Perché sarà il piano l’assoluto protagonista di Umbria Jazz Winter #12, il più completo tra gli strumenti musicali, capace di magnetizzare l’attenzione come solista e di arricchire la melodia da strumento di accompagnamento, ora delicato e soffice, ora martellante ed incalzante.

Illustri pianisti si ritroveranno a Orvieto provenienti da tre continenti: America, Europa e Australia. Cedar Walton, Brad Meldhau, Martial Solal, Danilo Rea, Stefano Bollani, Renato Sellani, Enrico Pieranunzi… Pianisti che provengono per lo più da una formazione classica ma che hanno una straordinaria  freschezza stilistica. Ed è incredibile avvertire come riescono a dare sempre nuovo vigore, arrangiamenti e modi stilistici diversi. Puntualmente. Ad ogni esecuzione. Potremo così davvero dire che i jazzisti (come Paganini…) non si ripetono mai!

I pianisti presenti ad Umbria Jazz Winter saranno accompagnati dalle loro formazioni musicali o si esibiranno in una proposta particolarmente suggestiva, quella del duo pianistico, formula scarsamente praticata nel jazz ma che meriterà di essere seguita, senza porre troppe domande sulla sua “eccentricità”.
D’altronde, affermava Louis Armstrong “se devi chiedere che cos’è il jazz, non lo saprai mai”. Il jazz bisogna viverlo. Capire la sua forza, la sua disperata speranza, la sua malinconia che tramortisce.

(Stefano Corradino – Micropolis)