LIVIO ORAZIO VALENTINI, un custode della memoria

Sono già state annunciate numerose iniziative per “non dimenticare”. La memoria del campo di concentramento di Buchenwald la vogliamo affidare a Livio Orazio Valentini, che di Buchenwald è stato, uno dei testimoni diretti, trascinato in Germania per la sua scelta di rivolta contro il nazismo.

Per quale ragione sei stato trascinato in campo di concentramento?

Ero a Patrasso, in Grecia. Al fronte. L’8 settembre 1943 non capivamo bene se la guerra fosse finita. Sapevamo, perché ce lo dicevano anche i greci, che a Cefalonia, e cioè a un miglio di mare, si stava consumando una delle più grosse tragedie provocate dai tedeschi, lo sterminio della divisione di Aqui che si rifiutò di cedere le armi. Mentre la divisione veniva sterminata, a Patrasso stavano complottando su un destino raccapricciante, per noi tremila militari italiani. Scoprimmo che nella piazza della scuola dove eravamo asserragliati era stato piazzato un cannone che avrebbe dovuto demolire la scuola. E sotterrarci. Poi chiesero di fare un passo avanti a coloro che erano d’accordo per seguitare la guerra. Rimanemmo immobili. Tutti.

E da soldati obbedienti ed ossequiosi vi siete trasformati in “rivoltosi”, nemici dichiarati, traditori.
Ci fu detto che l’indomani saremmo dovuti partire per Atene per poi salire su un grosso treno con destinazione imprecisata. Cominciammo il viaggio compressi in treni merci scoperti, senza tetti. Prima ci fermammo a Vienna, ci fecero scendere, ci spogliarono, ci fecero aprire gli zaini e ci rubarono tutto. Poi seguitammo il viaggio.
Fino ad arrivare al campo di concentramento di Buchenwald.

E lì comincia il dramma delle umiliazioni e della perdita della libertà.
Di umiliazioni ne potrei ricordare tante. Ne cito una che potrebbe sembrare banale ma esprime bene il concetto dei soprusi e delle continue mortificazioni. Un tedesco, maestro elementare, mi accompagnava la mattina al mio “luogo di lavoro”, dove toglievo i calcinacci. Lui camminava sopra il marciapiede, io sotto, in una strada dove circolare era alquanto pericoloso. Tentai di capovolgere mentalmente la situazione.

Come?

Usando la fantasia. Immaginai di essere un’autorità, e che al di sopra del marciapiede ci fosse la mia guardia del corpo, con tanto di divisa, elmetto e baionetta. Glie lo feci capire con i gesti e mi prese per matto. Era l’unico modo per “estraniarmi” dalla mia condizione.

Mi fai pensare a “La vita è bella” in cui Benigni si inventa un gioco per non terrorizzare il figlio e non fargli perdere la speranza.

E dire che quando il film è uscito mi sono rifiutato di vederlo. Avevo dei dubbi. Poi l’ho visto e ho capito e condiviso il suo messaggio. Immaginare un mondo inventato per preservare il bambino dal dramma della guerra è stata una cosa straordinaria. E nel film ho rivissuto la stessa ansia che provavo nel campo di concentramento.

Per quale ragione è importante non disperdere la memoria?
La memoria si può adoperare in vari modi. A me serve per dare un nome alle cose, belle e tragiche della vita. Quella che io ho vissuto la potrei chiamare “la vita dei senza nome”, quelli a cui attaccano un numero su una casacca a strisce, cancellando il nome, privando una persona del suo stesso dna. Mi domandavo spesso: ma questo lo hanno ragionato psicologicamente o è il frutto di un cinico “senso pratico” per il quale ciò che conta è il numero, più facile da codificare, da pronunciare? Mi ci è voluto poco per capire che non era un fatto pratico ma alla base c’era una volontà precisa: l’annientamento della personalità.

Dopo la dolorosa esperienza del campo di concentramento sei tornato in Italia. E hai cominciato a dipingere. L’esperienza disumana di Buchenwald avrà condizionato notevolmente i temi dei tuoi quadri.

Questo passaggio drammatico della mia vita poteva suggerirmi molti modi di esprimerlo. Invece di descrivere le persone ho dipinto degli animali, degli uccelli in gabbia, una metafora che per qualcuno sarà assurda ma per me è abbastanza esplicativa di ciò che voglio esprimere. L’uccello è un simbolo calzante per spiegare come si può ingabbiare la libertà, e simboleggia perfettamente la condizione in cui io e tanti altri siamo stati costretti a vivere.

(Stefano Corradino, la Città)