STEFANO BOLLANI: "Suono perché sono felice"

Il bello della musica è che quando ti colpisce non provi dolore.” Si può essere più o meno d’accordo con ciò che affermava Bob Marley. Ma è opinione comune che la musica sia anche un metodo di cura. Aiuti a lenire il dolore. Stefano Bollani non sarà un pranoterapeuta ma sentirlo suonare è senz’altro una terapia per l’umore. Ascoltarlo e vederlo, dimenarsi sul pianoforte, sprofondarci. Come se la tastiera fosse la silhouette di una donna. Lui l’accarezza, la provoca. Le origlia qualcosa nell’intento di addolcirla. Poi la scuote. Lui e il pianoforte. Una perfetta simbiosi. Sembra averne imparato il linguaggio prima ancora di cominciare a parlare…

Hai iniziato a suonare molto presto. Quando per la precisione? E perché hai scelto il pianoforte e non l’arpa o il trombone?
A 6 anni perché volevo fare il cantante e lo strumento doveva servire ad accompagnare la mia voce. Le scelte erano sostanzialmente tre: il pianoforte, la chitarra o la fisarmonica. Volendo anche l’arpa ma sarebbe stato un po’ stravagante per un bambino di 6 anni. Un po’ stravagante però lo sei stato, se non altro nell’ascolto.

Si narra che a 12 anni, l’età in cui un bambino normalmente ascolta le colonne sonore dei cartoni animati o le canzoni alla zecchino d’oro a te piaceva il jazz…

Era strano, non avevo amici che mi passavano dischi. Ho fatto tutto da solo ascoltando i programmi di Radio1 in cui si suonava e si parlava di jazz, comprando le enciclopedie della Fabbri Editore e scendendo nel negozio di dischi sotto casa per raccattare tutto quello che trovavo nel reparto jazz.

Non sarai passato inosservato!
Penso di no, secondo me se lo ricordano ancora…

Poi sei cresciuto e sei diventato il Bollani che conosciamo. Pianista jazz. Imitatore. Conduttore radiofonico. Ora anche autore di romanzi. E’ versatilità o schizofrenia?
Non lo so, è materia per il mio psicanalista. Penso che siamo ancora nell’ambito della versatilità ma mi rendo conto che dall’esterno non si coglie sempre il filo rosso che lega queste forme di espressione. Per me sono tutte facce della stessa medaglia.

In una di queste però ti sentirai maggiormente a tuo agio…

Sceglierne una è difficile però, di fatto, ciò che mi da più soddisfazione è suonare il pianoforte. Fare il conduttore radiofonico, scrivere un libro, cantare o fare imitazioni è un di più. Va benissimo, mi diverte e mi dà linfa vitale. Ma sono tutte cose che mi piace fare in pubblico. Suonare il pianoforte mi appassiona anche se sono da solo chiuso in casa senza nessuno che mi ascolta. Suono perché sono felice. Da solo a fare le imitazioni di Battiato non mi divertirei granchè…

Il complimento più bello che hai ricevuto
Non so se sia il più bello ma ce n’è uno che ricordo a distanza di anni. Quando suonavo con Irene Grandi una sua amica disse ad Irene: “Il vostro pianista è da urlo continuo!”

E la critica più severa?
Le più severe penso siano quelle che mi faccio da solo. In alcune esibizioni non mi piaccio quasi per niente, magari perchè suono troppo, e penso che avrei potuto suonare di meno e con più intensità ma poi ci scappa la mano. E’ facile sulla tastiera…

Io le critiche le rivolgerei alla musica cosiddetta leggera di oggi. Se scorri lungo gli scaffali dei negozi di dischi vedi in gran parte compilation. Gli artisti italiani (e non solo) non sfornano più pezzi nuovi ma rivisitazioni e riarrangiamenti dei loro brani più famosi. Al massimo un paio di inediti. E’ crisi creativa?
A mio avviso la scelta ricade più sulle case discografiche che sui cantanti. I musicisti e cantautori che conosco io preferirebbero scrivere pezzi nuovi piuttosto che rivangare vecchi successi, ma la casa discografica sa che vende meglio un disco di grandi successi che un disco nuovo che va lanciato, promosso, e non si sa mai se funzionerà o meno. Per cui la crisi non è creativa, ma economica e del mercato discografico. Di persone in grado di fare cose interessanti ce ne sono tante. Credo però che sarà sempre più difficile per loro trovare spazio.

Sono anche internet e il download a mutare il mercato? E vale anche per il jazz?
Sì ma in modo più lento; il pubblico del jazz è più maturo, è più feticista. Io non scarico dalla rete, cerco ancora il disco. Ma devo riconoscere alla rete il merito di contribuire alla diffusione della nostra musica in modo più capillare. Da un punto di vista discografico può essere un danno, ma sul piano artistico è emozionante sapere che, dall’altra parte dell’Oceano, qualcuno ha scoperto la tua musica.

In ogni caso tu, da una parte all’altra dell’oceano, ci sei arrivato anche fisicamente. Ormai da anni calchi le scene del jazz internazionale in varie realtà del mondo. Qual è il tuo approccio con il viaggio?
Per la verità io sono stato costretto ad imparare a viaggiare. Ho iniziato a 15 anni quando mi portarono in Cecoslovacchia a suonare. Ma da bambino odiavo i viaggi. Entravo in macchina e vomitavo. Preferivo di gran lunga stare nella mia cameretta con i miei giochi. Ho imparato forzatamente e quindi non penso di essere un esempio di grande viaggiatore. E quello che faccio abitualmente in ogni viaggio, quando arrivo nelle camere d’albergo prima di un concerto è ricreare quella specie di microcosmo in cui mi sento a mio agio. Mi bastano un libro, un disco, un dvd e mi sento a casa. Per il resto mi puoi togliere quasi tutto e me la cavo. E’ sempre un viaggio di scoperta però tenendo sempre presente le proprie passioni, che sono spesso rivolte all’interno più che all’esterno.

Volevo chiederti cosa porti con te normalmente in un viaggio. In sostanza mi hai già risposto. Un libro, un cd, un dvd. Altro?
Un computer magari. Nient’altro però, a parte abiti e beautycase, ma non mi sembra un’annotazione così originale. Ciò che non dimentico in ogni caso è un libro, anzi due perché ho sempre paura di finirne uno e di trovarmi sprovvisto. Sono un gran lettore e poi mi piace leggere in aereo, in albergo e riempire così i tempi morti.

C’è un viaggio comunque che ti ha fornito maggiore ispirazione?
Tanti. L’ultimo e tra i più importanti è il Brasile, paese dove sono stato tre anni fa e dove torno spesso confermando ciò che sentivo. E cioè che fosse un paese in cui mi sarei trovato bene. Tanto da convincermi ad imparare il portoghese, ad incidere con i musicisti brasiliani. L’atmosfera che ho trovato era quella che immaginavo.

Un Paese dove non hai mai suonato e che ti incuriosisce.
La Cina. Non ci sono mai stato. E neanche l’India. Anche se quest’anno a marzo andrò in Indonesia. Cina e India comunque. Mi aspetto da questi Paesi di trovarmi davvero in un paese straniero. Ultimamente non ti senti all’estero da nessuna parte: quando vai in giro per l’Europa, o in America o in Canada tutto è riconoscibile. Ci sono italiani dappertutto, i Mac Donald’s, più o meno l’inglese lo padroneggiamo tutti. Invece in un luogo come la Cina, o l’India o il Giappone ti senti davvero in un Paese straniero. Di occidentali in cinque giorni ne vedi una decina… Non ci sono i nomi delle strade né le insegne in occidentale tranne qualche rara eccezione e quindi non sai che negozio sia quello al settimo piano del palazzo che hai di fronte. E questo mi incuriosisce molto. Penso che potrei metterlo accanto, in ordine di importanza a quello in Brasile. Magari meno interessante musicalmente ma molto dal punto di vista culturale!

Stefano Bollani sarà anche un viaggiatore atipico come si descrive lui ma quando viaggia lascia il segno. Appena poche settimane fa nel negozio di dischi di un centro commerciale di Rio de Janeiro, mentre sfogliavo i cd di bossa nova e samba jazz, commentandoli a bassa voce, una commessa mi chiede se sono italiano. “Si, vengo da Roma le rispondo. Piacere, mi chiamo Stefano”. E lei: “come Bollani…”

(Stefano Corradino – Viaggiando)

http://www.medialabinformatica.it/_clienti/borgotessile/flip_catalogue/aprile_2009/