E dodici. L’edizione invernale di Umbria Jazz si appresta ad iniziare. Ma non è una “sporca dozzina”, parafrasando un celebre film con Charles Bronson: il bilancio del principale evento culturale di Orvieto, almeno per quanto riguarda la qualità della musica, è sicuramente in attivo. Dispiacerà ai consueti detrattori che ogni anno sostengono sia l’ultimo…
In cinque giorni di buona musica Orvieto torna ad ospitare grandi nomi del jazz internazionale dopo l’edizione più “italica” ma egualmente valida dello scorso anno. D’altronde il jazz italiano si è imposto con prestigio all’estero calcando palchi che, fino a pochi anni fa, erano appannaggio esclusivo dei musicisti “a stelle e strisce”.
Seicentocinquantamila euro. Un costo non indifferente che il Comune si sobbarca per la gran parte ma che, al di là degli incassi diretti tra biglietti, ricettività e indotto, si propone di far conoscere la città all’estero. Con l’auspicio che i jazzofili tornino quantomeno a visitarla in altri momenti dell’anno. “Un impegno economico che non tutti avrebbero sostenuto” – afferma Riccardo Stefanini, dello staff di Umbria Jazz”. Un paio di anni fa a Bologna si pensava di fare una manifestazione musicale con il marchio di Umbria Jazz e il Comune non ha accettato anche se l’esborso doveva essere di quattrocento milioni delle vecchie lire. Una cifra sicuramente alla portata per il capoluogo emiliano”.
Le ultime edizioni di Umbria Jazz (ad Orvieto ma anche a Perugia) si sono caratterizzate per le performance pianistiche di grandi nomi italiani ed internazionali. E quest’anno, più degli altri, il pianoforte è lo strumento-guida della manifestazione. Alcuni nomi: Cedar Walton, Martial Solal, Danilo Rea, Stefano Bollani, Renato Sellani, Enrico Pieranunzi… “Il piano ha un’arma in più” – afferma il musicista orvietano Piero Di Salvo che di recente ha suonato all’Alexander Platz, “tempio romano” (e non solo) del jazz italiano. “E’ uno strumento ‘principe’ che ha la possibilità, da solo, di creare un discorso musicale completo”.
Il jazz è un continente da esplorare, una musica che esce spesso dai suoi confini e, come un laboratorio di sperimentazione, alimenta tutte le altre musiche moderne. “Il termine jazz sta diventando obsoleto” – sottolinea Di Salvo. “Se si ascoltano le nuove produzioni, penso proprio a quelle di Meldhau o Bollani si assiste ad “chiusura del cerchio”, nelle continue contaminazioni tra musica classica, pop, rock…”
I pianisti non sono ovviamente gli unici protagonisti della rassegna. Torna ad Orvieto il giovanissimo talento siciliano Francesco Cafiso che ha stupito lo scorso anno il pubblico più selettivo suonando il suo sax con la padronanza (e la creatività musicale) dei grandi musicisti con decenni di esperienza alle spalle. E non mancano le sorprese per il pubblico avvezzo al jazz più “orecchiabile”. A cominciare dalla Crescent City Jazz Band di New Orleans. Una formazione dedicata al jazz delle origini, quello suonato agli inizi del Novecento a New Orleans, la vecchia città sul Mississipi che tra i suoi innumerevoli soprannomi ha anche quello di Crescent City. “Il loro è il jazz trascinante degli anni venti e trenta – afferma Stefanini – ed è un piacere ascoltarli e vederli suonare. Un pò sullo stile di Ray Gelato, suonano con lo spartito montato sul leggio e creano un’atmosfera frizzante e coinvolgente”.
Orvieto si prepara così ad ospitare la nuova edizione della manifestazione. In dodici anni il pubblico è cambiato. E gli orvietani (almeno parte di essi) sembrano essersi affezionati a questo genere “alto e strano” che quando entra nelle ossa non smetti più di ascoltarlo. “Nei primissimi anni – afferma Stefanini – i nostri concittadini erano davvero pochi ai concerti, ci capitavano quasi per caso. Adesso sono in molti quelli che, già alcuni mesi prima dell’inizio, prenotano i biglietti dei concerti di punta”.
Ma in quanto a ricettività ed ospitalità Orvieto si è adeguata? E’ troppo chiedere che nei giorni di Umbria Jazz Winter i negozi del centro storico di Orvieto rimangano aperti anche dopo le otto di sera? O che se non altro, per dare un’idea diversa dal “coprifuoco” notturno si lascino accese le luci delle vetrine?
“Orvieto ha ancora molta strada da fare – incalza Di Salvo – e non c’è una vera e propria mentalità turistica. Gli orvietani sembrano spesso volersi chiudere a riccio al grido di “questo posto è mio e lo gestisco io”. Sembra che temano “intrusioni” troppo forti, che abbiano paura di essere espropriati di qualcosa”.
Il 2 gennaio la dodicesima edizione del festival saluterà pubblico e musicisti, in attesa della edizione estiva di Perugia. Per non trovarsi impreparati alla tredicesima forse occorrerà cominciare a lavorarci da subito, individuando sponsor nazionali ed esteri importanti, stimolando nuovamente ed energicamente gli imprenditori locali a sostenere questa importante manifestazione e magari anche una nuova rassegna, in primavera o nella prossima estate.
(Stefano Corradino – la Città)