BOB GELDOF: "Il mondo ci chiama, ma noi lo stiamo a sentire"

Londra – Sono le ore 11:30 del 6 ottobre 2006. Siamo al centro di Londra, nella sede di Data (Debt, AIDS, Trade, Africa), l’organizzazione fondata dai musicisti Bob Geldof, Bono e Richard Curtis, che si batte per il taglio dei debiti dei paesi del Terzo Mondo, per un commercio più equo, per lo sviluppo dell’Africa, per la lotta all’AIDS. Saliamo 2 piani in ascensore. L’attesa e’ trepidante. Tra pochi minuti ci troveremo faccia a faccia con Robert Frederick Zenon Geldof, musicista e attivista politico nominato cavaliere dalla regina d’Inghilterra Elisabetta II. Lo volevamo intervistare da mesi cercando di fissare un incontro tra una tournee e l’altra, tra un incontro con un leader politico e un viaggio in Africa. Solo tre giorni fa ci arriva una e-mail di Amanda, la sua gentile assistente che ci scrive: “Bob e’ a Londra venerdi’, ha un’ora di tempo per voi. Lo so, il preavviso e’ breve…”
E quando ci ricapita! Ed eccoci qua, siamo davanti a Geldof, l’autore di “Do They know it’s Chiristmas”, il singolo piu’ venduto nella storia della musica inglese. Ed uno dei musicisti piu’ impegnati nella lotta alla poverta’. Un rivoluzionario del rock? “Non sono ne’ un rivoluzionario ne’ un romantico ma un cantante realista e spero sensibile” ci dice il 52enne irlandese. “Quando ho promosso concerti come Live Aid e Live 8 l’obiettivo era molto concreto: raccogliere i fondi per fermare la morte di tanta gente. Mentre in Europa veniva prodotto cibo in abbondanza, a sud di Lampedusa c’era gente che moriva di fame…”.

Sei conosciuto in tutto il mondo come musicista e come uomo impegnato in battaglie civili. Ma forse non tutti sanno che hai iniziato come giornalista musicale. Cosa ti ha spinto ad occuparti di musica da “protagonista” e non piu’ da critico?
La mia storia professionale comincia in Canada. Per nove mesi ho lavorato li’ per una rivista locale. Ma io ero un clandestino e cosi’ venni rispedito in Irlanda. Tornato a casa decisi di mettere su una rivista dedicata al rock. E mentre mi preoccupavo di come lanciare il giornale, il venerdì sera mi riunivo insieme ad altri amici con cui componevamo una band, e provavamo i nostri pezzi. Era il 1975. Un giorno facemmo un concerto per la notte di Halloween in una scuola, tre ore filate di musica. A un certo punto facemmo una pausa. Mi si avvicina una ragazza durante l’intervallo e mi dice esplicitamente che voleva fare sesso con me. Lì capii che la carriera del musicista era sicuramente più interessante di quella del giornalista…

Quella del rock e’ stata una scelta casuale? Magari condizionata da musicisti da cui traevi ispirazione?
Negli anni 70 la musica era terribile, musica di merda direi, star del cinema che fingevano di essere star del rock,. E il rock che appariva sempre di piu’ come una sorta di bolla speculativa, gonfiata, non più un fenomeno popolare. A un certo punto la musica sembrava aver perso il suo essere “popolare” e il metro di distinzione era dato dalla tua limousine. Una band come i Rolling Stones si era trasformata in una sorta di grande “corporation” e alla radio passavano cose schifose!

Cosi’ comincia la tua ribellione personale a quel rock che non ti apparteneva…
Decidemmo, con i miei amici, che era il caso  di scrivere qualcosa di più passionale e che parlasse alla gente. Ma non tutto era da buttare. Un paio di gruppi fuoriuscivano letteralmente dal coro, penso a Bob Marley e ai Doctor Feelgood. Il primo aveva dei testi rivoluzionari assolutamente fuori dagli schemi.

Avete cominciato a suonare nei pub. La risposta del pubblico e’ stata subito positiva?
La nostra idea di base era quella di divertirci insieme agli amici, ma dopo il secondo concerto in un pub di Dublino, la gente andò letteralmente fuori di testa. C’erano centinaia di persone e una sera il barista smise di servire ai tavoli e si mise a ballare. Mentre lui si dimenava nella sala io pensai che forse stavamo facendo qualcosa di interessante…

Quando hai pensato che la tua passione poteva diventare un lavoro?
Questo è uno spunto interessante, non ci avevo mai riflettuto. In realta’ quando una cosa ti appassiona e tu cominci a farla come lavoro finisce che prima o poi ti stanca. E il rischio si corre anche nel campo musicale: incominci a subire delle pressioni, devi diventare competitivo, scrivere il pezzo da hit, cercare di vendere sempre più dischi… Per fortuna la musica che facevo col gruppo mi piaceva e mi divertiva, e stava diventando un lavoro “di carriera”. Eravamo popolari e la musica era buona. Ma forse adesso mi diverto di più.

Ad un certo punto ti arriva la proposta dal regista Alan Parker di interpretare la parte di Pink, il protagonista in “The Wall”, il film girato sulla musica dell’omonimo album dei Pink Floyd. Da critico musicale a cantante ad attore. Quanto ti appartiene quel film e quel personaggio?
A dire il vero non è che ci abbia capito molto in quel film: è stata un’idea di Roger… Mi è stato detto: “siediti su quella sedia e guarda la tv”

Il film in effetti e’ piuttosto “enigmatico” ma offre spunti di riflessione importanti. La paura dell’uomo di non riuscire a comunicare con il prossimo, di restare solo in un mondo che non comprende… Un tema attuale, non trovi?
Oggi ci sono davvero molte difficoltà nel comunicare, nei rapporti personali cosi’ come nella vita politica. Pensiamo a come ci rapportiamo con il mondo islamico…  
Ognuno è chiuso nel suo piccolo mondo, troppo occupato a pensare ai propri affari, e si rischia di essere facilmente manipolati: la manipolazione può essere scoperta come ad esempio succedeva sotto i regimi totalitari, oppure e’ subdola: la manipolazione del business ad esempio…

Dopo l’esperienza con il tuo gruppo Boomtown Rats decidi di tentare un’impresa gigantesca: il Live Aid, un concerto mondiale che riunisca i musicisti migliori (e piu’ sensibili dal punto di vista sociale)…
L’idea era quella di partire dai i progetti sullo stile del “Band Aid” e proporre un salto in avanti. Band Aid era un bel progetto che raccoglieva i musicisti e i gruppi piu’ in voga in quel momento, ma non era sufficiente. Mi torno’ in mente la prima trasmissione satellitare che avevo visto da giovane e mi sembro’ suggestiva l’idea di un collegamento  tra l’Europa e l’America. L’idea di fare un concerto per due continenti ma rivolto a tutto il mondo secondo me funzionava. Perché la lingua franca, quella universale, non è l’inglese ma la musica…

C’e’ qualcosa che a tuo avviso lega Live Aid a Woodstock? Lo spirito, la trasgressione, la ribellione ai modelli dominanti, alla guerra…
Entrambi sono l’espressione di una fase generazionale particolare, ma lo spirito e’ assolutamente diverso… Woodstock e’ stato un festival pop, se non ci avessero fatto un film e non ci fosse stato Jimi Hendrix, probabilmente tutti lo avrebbero dimenticato. E non e’ stato tra l’altro l’unico evento da ricordare. Pensiamo al festival di Monterrey del 1967.   Woodstock diventò il simbolo di una ribellione al grido di “pace e amore” in contrasto con quello che stava avvenendo a livello internazionale, in Vietnam soprattutto.
Il Live Aid, invece, non nasce con queste prospettive ma da intenti squisitamente politici. A me non interessava il motto “peace e love”; io volevo contribuire, attraverso la musica, a fermare la morte di tanta gente. In Europa si produceva cibo in abbondanza mentre a sud di Lampedusa c’era gente che moriva di fame… Questa consapevolezza ci spinse ad un atteggiamento molto pratico: fermare le morti e ottenere fondi.
Ero lì per chiedere 10 milioni di sterline, ricevemmo 200 milioni di dollari.

Si racconta che dopo quasi sette ore di concerto a Londra rimanesti deluso per la somma raccolta come donazione per l’Africa e, in un’intervista alla Bbc, gridasti un “dateci questi fottuti soldi” e da li’ sono cominciati a piovere… E’ cosi’?
È’ una leggenda… Ma e’ vero che mentre il concerto andava avanti la gente, presa dalla musica, sembrava dimenticarsi qual era il vero obiettivo della manifestazione. Allora io mi precipitai di corsa alla radio e ricordai gli obiettivi dicendo “chiamate questo numero di telefono, dateci questi soldi subito!”

Venti anni dopo il Live8. Dieci concerti per fare pressioni sui leader politici delle nazioni piu’ ricche per cancellare il debito dei paesi piu’ poveri. Quanto pensi abbia influito il Live 8, cosi’ come la campagna “Make Poverty History”, nella sensibilizzazione della coscienza collettiva e delle scelte dei leader delle nazioni nei confronti dell’Africa?
Il Live Aid doveva confrontarsi con i sintomi della povertà, fame corruzione, malattie, ma in realtà quello che occorre fare, una volta individuati i sintomi, e’  venire a capo delle ragioni che causano la povertà. E nel frattempo, 20 anni dopo il mondo era cambiato, la guerra fredda finita, e nuove opportunità si affacciavano a livello politico. E cosi’ abbiamo cominciato a mettere in discussione il Live Aid stesso. Il nostro “bersaglio” e’ diventato il G8, fare pressioni su questa organizzazione per cambiare il modo di affrontare la povertà mondiale.

E’ ammirevole che gli artisti si muovano in prima persona per sensibilizzare l’opinione e pubblica e i governi a favore delle popolazioni piu’ povere. Ma non pensi che sia molto triste e anzi indecente che debbano essere i musicisti a spronare i politici?
Credo sia non solo triste ma patetico! Ma alcuni esponenti politici il messaggio lo hanno afferrato… Quando abbiamo fatto il Live Aid, c’era un giovane che era appena entrato in politica, il suo nome era Tony Blair… Andai a parlargli di questo progetto e lui penso’ che fosse un’ottima iniziativa per mobilitare l’opinione pubblica su questo tema.
Per me l’Africa è uno dei problemi principali del nostro tempo; alcuni politici hanno dimostrato (e dimostrano tuttora) una spiccata sensibilità. Altri meno. Berlusconi non voleva spendere soldi, Prodi invece ha dichiarato che gli aiuti aumenteranno, vedremo se con la nuova finanziaria la promessa sarà mantenuta, altrimenti altra gente morirà. A loro comunque non piace che dei cantanti di musica pop si occupino di certi argomenti e li incalzino cosi’ tenacemente. Ma quando hai un milione di persone al Circo Massimo non puoi fare finta di niente…

Intanto, il rapporto tra spese umanitarie e spese militari rimane 1 a 100…
Spendiamo nel mondo cifre assurde per la difesa, gli eserciti le armi. Dilapidiamo 380 milioni di dollari per i cosmetici… E gli aiuti che diamo ai paesi poveri non sono affatto sufficienti, anzi in confronto alle spese superflue sono inconsistenti!

La globalizzazione, la corsa sfrenata ai consumi, la spinta ossessiva all’arricchimento sono un processo che deve essere modificato o messo totalmente in discussione?
Probabilmente la globalizzazione è anche una buona cosa. Pensiamo alla Cina: riceveva aiuti fino a qualche anno fa dagli stati stranieri e quest’anno l’1% della popolazione cinese uscirà dalla povertà. Gli europei sono i più terrorizzati dal fenomeno perché vedono prodotti e produzioni andare verso l’est, ma questo è normale, e dobbiamo adattarci. E dobbiamo fare in modo che la globalizzazione serva per aiutare la gente ad uscire dalla miseria.

Uno dei tuoi pezzi storici si intitola “the world is calling”. Se il mondo ci chiamasse adesso, cosa ci chiederebbe?
Se chiamasse me mi direbbe di andare a quel paese e stare zitto. Il mondo ci chiama in qualsiasi momento. Ma la maggior parte delle volte non sei lì a ricevere la chiamata.

Preferisci che la gente ti conosca come musicista o come attivista politico?
Intanto non sono più una rock star, forse un tempo… Non mi interessa come la gente mi ricordera’ quando saro’ morto. Ora che sono vivo cerco di coltivare la mia passione per la musica e di condividere con gli altri l’impegno contro la poverta’.

Sei ottimista sul futuro?
Sono un afro-realista! Ma in fondo non siamo una così brutta specie…

(Stefano Corradino e Claudia Consolini – Raisat Extra)