"Mio padre e i neorealisti sentivano il bisogno di raccontare la verità". Intervista a CHRISTIAN DE SICA

“Ogni volta che si parla di mio padre per me è una festa. Questo è un paese che dimentica facilmente. Anna Magnani non se la ricorda più nessuno… Quindi quando qualcuno si occupa di papà non mi fa altro che piacere. Anche per far conoscere ai nostri figli quello che certi italiani hanno fatto in passato”.  E’ la prima cosa che dice Christian De Sica al Radiocorriere Tv quando lo incontriamo per parlare di suo padre Vittorio di cui ricorre il quarantennale della morte. Ci tiene a sottolineare, ancor prima di cominciare l’intervista, che parlare di lui è sempre motivo d’orgoglio.

Gli anniversari sono importanti ma spesso si gonfiano di retorica. Come si restituisce un’immagine di Vittorio De Sica depurata dei luoghi comuni?
Facendo parlare i suoi film che, tra l’altro, sono stati restaurati da mio fratello, ma anche i capolavori di quella stagione. Rossellini, Zavattini, Fellini…  Far conoscere ai giovani “Ladri di biciclette”, “Umberto D”, “l’Oro di Napoli”… Ci sono cinque-sei film neorealisti che valgono forse un quarto del cinema mondiale.

Lo pensano anche i cineasti americani che citano continuamente i film neorealisti dai quali affermano di aver imparato molto.
Quando ho conosciuto Martin Scorsese mi disse che loro in America erano abituati a fare film nei teatri di posa. Ma quando hanno visto “Ladri di biciclette”, “Roma città aperta” e “Sciuscià” girati per strada sono rimasti sconvolti. Li hanno visti e rivisti ripetutamente e poi hanno cominciato a farlo anche loro. Possiamo affermare fieramente di essere arrivati venti anni prima! 

Il cinema neorealista non era solo una forma d’arte ma un movimento culturale e politico, di forte denuncia sociale.
Prima dei neorealisti al cinema si raccontava un’Italia che non esisteva, fatta di salotti scintillanti con gerarchi, diplomatici e ufficiali della marina che portavano sottobraccio donne impellicciate. Non era questa la realtà. E mio padre così come Rossellini e altri sentivano il bisogno di raccontare la verità. Per strada c’era la miseria, c’era la fame. Un approccio che poi gli è stato riconosciuto tanto che  il primo Oscar mio padre lo ha vinto con la regia di “Sciuscià”. Nel dialetto napoletano sciuscià erano i lustrascarpe, i ragazzini che pulivano le scarpe degli americani che erano venuti a liberarci dal nazismo.

Qual è il film di tuo padre che hai amato di più?
“Umberto D”. Un film molto amaro, con il protagonista ormai vecchio che decide di uccidersi perché stufo di lottare con la vita. Un film senza concessioni, poeticamente altissimo, è il più bello tra quelli diretti da mio padre.

Spesso il rapporto tra un figlio d’arte e il padre è conflittuale. E sulla carriera pesa l’ombra del maestro.
Per me non è stato così, tutt’altro. Nessun rapporto conflittuale, nessuna competizione. Mio padre muore quando avevo ventitré anni e stava maturando in me la convinzione di voler fare l’attore. E quindi sono stato fregato! Avrei voluto e potuto voluto imparare tante altre cose da lui. Nessun conflitto, perderlo è stato solo un grande dolore. Ancora oggi mi manca molto.

Quando hai detto a tuo padre che volevi fare l’attore come l’ha presa?
Gli è preso un colpo! Io stavo studiano Lettere e lui, che aveva un diploma da ragioniere si vantava del fatto che aveva un figlio all’università.  Quando poi gli ho detto “papà faccio le serate nei night” è rimasto a dir poco sbigottito. Ma ho fatto bene a seguire il mio istinto anche perché  quando se ne è andato la situazione economica non era affatto rosea e continuare a dare gli esami sarebbe stato un problema. Io invece avevo già un mestiere, poi ho cominciato con il cinema e per fortuna mi è andata bene!

Hai raggiunto la popolarità recitando in numerose commedie di successo, in particolare i cosiddetti cinepanettoni. Rimpianti per essere associato a questo filone?
Ma no. E’ chiaro che i produttori quando un filone riscuote successo continuano a farti fare sempre lo stesso genere di film ma penso che ognuno debba sentirsi libero di fare ciò che si sente di fare.  E a me è sempre piaciuto il genere del varietà. Ho cominciato proprio in Rai facendo i varietà con Antonello Falqui poi, il cinema e ora sono tornato a ballare e cantare a teatro.

Niente cinepanettone quest’anno allora?
No! Ho recitato in un film che esce il 13 novembre, di Luca Miniero, dal titolo “La scuola più bella del mondo” con Rocco Papaleo. Una commedia leggera ma  molto diversa dal genere comico tout court che esce sotto Natale. E forse prossimamente dovrei  fare uno spettacolo musicale per la Rai.  Quest’inverno intanto farò un piccolo film con una regista debuttante e sarà una commedia amara ambientata a Bolzano. La storia di un vedovo e di una signora con un albergo in disuso. Tra i due nasce un bel rapporto ma non è amore bensì amicizia. Pura amicizia tra uomo e donna. Un film di nicchia ma molto interessante.

Eravamo partiti dal neorealismo. Una stagione replicabile al giorno d’oggi?
Non penso, ma ci sono autori come Garrone e Sorrentino che grazie a Dio tengono alto il cinema italiano. E tanti giovani emergenti e di talento. Parlo io che non c’entro niente con questo genere perché faccio del cinema “popolare” ma sono felice di vedere attori e registi di grande livello e impegno! 

Articolo di Stefano Corradino pubblicato sul “Radiocorriere tv”