"Radici". In cerca di un destino migliore. Intervista a DAVIDE DE MICHELIS

“La strage della vergogna”, “l’Ecatombe di Lampedusa”, “Roghi umani”, “Il cimitero dei migranti”. Sono alcuni dei tanti titoli dei  quotidiani o Dei servizi dei tg all’indomani delle tragedie che in questi anni hanno sconvolto Lampedusa e altre realtà costiere. Quando si discute del problema immigrazione, lo si fa quasi solo alla luce delle emergenze. Con le cifre angoscianti e inappellabili del numero dei morti, dei feriti, dei dispersi. L’occhio della telecamera che si sofferma sui volti disperati dei sopravvissuti, di chi è scampato da un viaggio. iniziato di speranza e conclusosi disperato.

Ma l’immigrazione è ben altro. Sono le storie delle milioni di donne e uomini, regolari, che da anni vivono, lavorano, crescono i figli nel nostro Paese e contribuiscono alla crescita dell’Italia. Economicamente e culturalmente. “Radici – L’altra faccia dell’immigrazione”. Così il giornalista e autore televisivo Davide De Michelis (nella foto) ha voluto intitolare i quattro reportage in onda su Rai3, in seconda serata dal 20 giugno. Protagoniste delle puntate sono quattro donne: Maristela Goncalves, Saba Anglana, Malia Zheng e Coumbaly.

Perché hai scelto le donne come punto di osservazione del fenomeno dell’immigrazione?
L’esigenza era quella di scegliere un punto di vista diverso che ci portasse più in profondità. E attraverso il racconto delle donne scavi più a fondo nelle emozioni.

Ci sono aspetti dei loro racconti che ti hanno sorpreso?
Molti. Ciò che però mi ha maggiormente stupito è il giudizio di alcune di loro sul Paese di provenienza, dal quale si sono allontanate in cerca di un destino migliore. Ad esempio Coumbaly, la donna senegalese protagonista dell’ultima puntata che ha vissuto dodici anni a Parma con il marito e i tre figli. Lei è rientrata in Senegal per portare nel suo Paese d’origine le competenze acquisite in Italia. E oggi lavora in una Ong. Lei afferma di essere arrivata in Italia con l’aspettativa di maggiori diritti in quanto donna. E se da una parte questa aspettativa è stata confermata lei, dopo dodici anni di permanenza in Italia dice di preferire il Senegal:  “Da voi – mi ha detto – le donne hanno molti diritti, ma nessuno che le aiuta in famiglia. In Senegal invece, grazie alla famiglia allargata, c’è sempre qualcuno che mi assiste nella gestione dei miei tre figli”.

Coumbaly è arrivata in Italia ed è stata regolarizzata. Come tante altre donne e uomini. Quando parliamo di immigrazione però, normalmente si affronta solo il tema dei cosiddetti “clandestini”.
E questo è uno degli errori più gravi anche in termini di comunicazione. L’idea di “Radici” è infatti quella di raccontare l’immigrazione in termini positivi. Partendo da un dato: il dieci per cento della popolazione italiana è oggi composta da immigrate o immigrati, e la gran parte sono regolari. Ma ciò di cui si parla è solo il fenomeno di Lampedusa, i disperati che sbarcano nelle nostre coste. Gli altri non fanno notizia. L’idea di “Radici” è dare visibilità a questa stragrande maggioranza (silenziosa) di regolari. Capire chi sono, e conoscere, attraverso di loro, i paesi di provenienza.

Se un immigrato su dieci viene da un altro paese vuol dire che mediamente abbiamo almeno un immigrato come vicino di casa. Eppure siamo ancora restii ad entrarci in rapporto.
E’ così. Nel palazzo dove abiti o alla fermata di un tram c’è ovunque una donna e un uomo proveniente da un altro paese. Ma non ci parliamo. Magari perché pensiamo che parli un’altra lingua e non riusciamo a comunicarci. Per questo abbiamo deciso di realizzare il programma raccontando tutto in italiano, senza sottotitoli né “oversound”…

Sono sempre così tanti gli stereotipi sull’immigrazione?
Quando parliamo con Rosa, una donna boliviana che abbiamo incontrato nei nostri viaggi, lei ci dice di essere contenta di dialogare con noi così potrà spiegare che anche in Bolivia usano il computer. Ci racconta di essere stata segretaria di un governatore in Bolivia che, non rieletto le aveva promesso di ricollocarla. Ma lei preferisce andarsene e trasferirsi in Italia e precisamente a Bergamo dove c’è una comunità di quindicimila boliviani. Riprende gli studi e si aiuta economicamente facendo pulizie in alcune abitazioni. Un giorno a una signora per cui lavorava chiede se poteva usare il suo computer per mandare una mail in Bolivia. E la signora sgrana gli occhi e le dice “usate il computer in Bolivia?”.

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