L’America delle bufale. Intervista a Gerardo Greco

Il falso cibo Made in Italy, il fake italian food, in America lo chiamano “Italian Sounding”, un giro d’affari di oltre 50 miliardi di euro all’anno… Per capire: due prodotti su tre commercializzati all’estero si richiamano al nostro Paese. E’ questo il tema di Slang (“Sogno L’America Nel Giardino”) che torna su Rai3 in due puntate – la seconda sabato 31 ottobre alle 16.30 – con il titolo “That’s sapore”. Ne parliamo con Gerardo Greco, autore del programma insieme a Gianluca Santoro e Ester Maria Lorido.

L’anno scorso con “Slang” vi siete recati a New York per analizzare la cosiddetta “fuga dei cervelli”. Quest’anno avete deciso di misurarvi con l’alimentazione. Perché questa scelta?
Il filone è in qualche modo lo stesso, quest’anno abbiamo scelto di parlare della “fuga dei cibi”. Complice l’Expo abbiamo deciso di raccontare il “fake”, il falso italiano nel mondo. Abbiamo scelto anche questa volta New York, luogo emblematico di qualsiasi estero per parlare dell’enorme truffa ai danni del sistema italiano. Un’inchiesta per capire chi e come copia il nostro “made in Italy”.

Quello americano è un distretto alimentare enorme
Imponente, e che produce un giro di affari di una grande quantità di miliardi. Per questo oltre a New York ci siamo mossi anche nei dintorni, dal New Jersey al Connecticut fra le fabbriche e le industrie alimentari del cibo per capire cosa sono la mozzarella americana, la passata di pomodoro americana, la salumeria americana, la pizza americana, perfino il vino americano…

E cosa sono?
Il risultato di una pessima imitazione. Gli americani – e tutti gli altri – ci copiano molto male. E siamo giunti alla conclusione, anche se probabilmente ne eravamo già convinti prima del nostro viaggio, che il prodotto italiano non è replicabile. Ci puoi provare ma non sarà mai la stessa cosa.

Per quale ragione?
E’ una questione di prodotti, di ambiente, di suolo, di clima… Gli americani, così come i cinesi o altri popoli possono copiare perfettamente i migliori orologi svizzeri o le più sofisticate automobili tedesche ma non ci riusciranno mai con il nostro cibo. Che ha rigorosamente bisogno dell’Italia. La nostra fortuna è sotto i nostri piedi. Ma noi abbiamo anche la responsabilità di non aver saputo sfruttare adeguatamente questa enorme potenzialità.

Ti riferisci alla capacità di imporre il nostro “made in Italy”?
Esattamente. E’ una battaglia culturale, ambientale, perfino politica. Dobbiamo tutelare un’industria che ci viene sottratta in tutti i modi rivendicando la nostra assoluta diversità ed eccezionalità di sapori. E non a caso abbiamo chiamato questa inchiesta “That’s sapore”. E con il rammarico di vedere grandi esperimenti come “Starbucks” che vende il caffè su scala globale quando noi non siamo riusciti ad imporci sul mercato globale. Perché l’Italia che è leader riconosciuto nell’alimentazione mondiale non riesce a imporre i suoi prodotti globalmente? E’ un peccato se consideriamo che un ristorante su tre, negli Usa, si richiama alle origini italiane e che noi non siamo riusciti a creare una macchina da consenso puramente italiana.

Qual è il prodotto italiano contraffatto più emblematico?
La mozzarella, senza dubbio. Sai benissimo che quella di bufala che si fa a Battipaglia se scendi anche solo di venti chilometri non è già la stessa cosa. Pensa a seimila chilometri di distanza… Il risultato è che la mozzarella americana, anche se si richiama alla nostra è una cosa tutta diversa. Un prodotto secco, incelofanato, sotto vuoto, pieno di conservanti, fortemente industrializzato. E’ nota la storia di alcuni imprenditori del Vermont che anni fa provarono a portare delle bufale campane nel loro paese e che morirono dopo pochi mesi. Non si può fare. Il prodotto italiano non è replicabile se non in Italia.

Facci un altro esempio, magari saltiamo dal salato al dolce.
Stessa cosa. Siamo andati dai famosi pasticceri “i boss delle torte”. Lavorano su scala industriale e producono cannoli e sfogliatelle. Loro dicono che sono migliori di quelle che si fanno a Napoli e a Palermo. Ma in realtà sono tutt’altra cosa. Sono diametralmente diversi e ovviamente in peggio.

Il tuo programma è diverso dai classici programmi di cucina che vediamo ripetutamente in tv
La nostra è un’inchiesta sul sistema alimentare fuori dall’Italia ma abbiamo anche un altro piano narrativo rappresentato da una sorta di talent che si svolge a Woodstock, la capitale della ribellione americana: una gara di cuochi italiani che cucinando con prodotti esclusivamente americani – prodotti terribili – devono mettere in piedi per la comunità di Woodstock una sorta di banchetto italiano.

Come ti spieghi il boom dei programmi di cucina in tv?
Innanzitutto perché a noi piace mangiare, e bene! E poi perché se c’è una cosa che sappiamo fare è proprio cucinare, una delle nostre grandi qualità. E infatti anche i programmi tv di cucina che partono dagli Usa o dalla Russia o dalla Germania in realtà si richiamano sempre a un concetto italiano di cucina.

Ma se il cibo italiano copiato negli Usa è così pessimo quando sei a New York tu dove mangi?
Cucino io!

Intervista di Stefano Corradino pubblicata sul Radiocorriere Tv